Autore: Luigi Cacciatori
Quando è stato approvato il nuovo Decreto Sicurezza, uno dei punti che ha fatto più discutere è stato l’articolo 18, quello che riguarda la cannabis light.
Il Governo lo aveva presentato come la soluzione definitiva per “fare ordine” in un settore considerato troppo ambiguo: quello della marijuana legale, nata grazie alla legge 242 del 2016 e basata sulla canapa industriale, cioè piante con un contenuto di THC così basso da non provocare alcun effetto psicotropo.
L’intenzione, almeno sulla carta, era quella di evitare confusioni tra cannabis light e droga vera e propria. Ma il risultato, a distanza di mesi, è stato l’esatto opposto: una legge scritta male, inapplicabile e piena di contraddizioni, che ha messo in difficoltà migliaia di imprese senza migliorare minimamente la sicurezza pubblica.
L’articolo 18 ha imposto un divieto generale sulla coltivazione, la trasformazione e la vendita delle infiorescenze di canapa sativa L., anche quando il THC è al di sotto dei limiti di legge.
In pratica, ha messo nello stesso calderone la cannabis light e la marijuana ad alto contenuto di THC, ignorando le differenze sostanziali tra le due.
Una scelta che ha cancellato, di fatto, i progressi fatti con la legge 242/2016, la quale aveva dato nuova vita al settore della canapa industriale in Italia.
Il risultato? Una norma confusa e difficile da applicare, che ha colpito indistintamente agricoltori, negozianti e produttori di prodotti CBD che lavoravano nel pieno rispetto della legge.
Mentre in gran parte d’Europa la cannabis light viene regolamentata e valorizzata, in Italia è stata demonizzata. Il messaggio passato è chiaro: meglio vietare tutto, anche ciò che è legale e sicuro.
Prima di questo decreto, il mercato della cannabis light in Italia era in forte espansione.
C’erano centinaia di aziende agricole, negozi specializzati, posti di lavoro e un giro d’affari di decine di milioni di euro.
Tutti lavoravano su prodotti certificati, con THC bassissimo, venduti come infiorescenze da collezione, tisane, cosmetici naturali a base di canapa e prodotti CBD.
Dopo l’articolo 18, tutto è cambiato.
Molte aziende si sono viste arrivare controlli, sequestri, indagini. E nella maggior parte dei casi, tutto si è chiuso nel nulla: le analisi dimostravano che i prodotti erano perfettamente legali, senza alcun effetto drogante.
Decine di inchieste archiviate, imprenditori assolti, tonnellate di merce sequestrata inutilmente: un disastro economico e umano, tutto per una norma impossibile da far rispettare.
Nel frattempo, Paesi come Svizzera, Germania e Francia hanno scelto la strada opposta: regolamentare la marijuana legale e i derivati del CBD.
Mentre loro aprono nuovi mercati e attirano investimenti, l’Italia perde terreno e credibilità.
La conferma che la legge non funziona è arrivata dai tribunali.
In diverse città italiane, da Trento a Firenze, i giudici hanno ribadito che la cannabis light non può essere considerata una sostanza stupefacente.
E non serve una laurea in chimica per capirlo: se non ha effetto drogante, non è droga.
Anche la Corte di Cassazione, già nel 2019, aveva chiarito che vendere prodotti a base di canapa con THC molto basso è perfettamente legale.
Le sentenze successive hanno solo confermato questa linea: l’articolo 18 è una legge vuota, che non regge di fronte alla realtà scientifica e giuridica.
Oggi molti procedimenti vengono archiviati, e i sequestri si trasformano in un boomerang per lo Stato, che spreca tempo e risorse per colpire chi lavora onestamente.
Oltre all’aspetto legale, c’è il danno economico.
L’articolo 18 ha messo in ginocchio un intero settore che stava crescendo in modo sano e trasparente.
Le imprese italiane della canapa producevano con metodi sostenibili, rispettando standard di qualità e tracciabilità.
Oggi molte di loro sono costrette a chiudere o a spostarsi all’estero, dove la legislazione è più chiara e stabile.
Anche banche e assicurazioni si tirano indietro: considerano il settore “a rischio” e rifiutano di aprire conti o concedere coperture.
Gli investitori stranieri, che fino a poco tempo fa guardavano all’Italia come a un mercato promettente per i prodotti CBD, ora preferiscono operare in Svizzera o in Germania.
Il messaggio che il Paese sta mandando è chiaro: chi vuole innovare in modo legale, meglio che lo faccia altrove.
Il paradosso più grande è che il Decreto Sicurezza non ha aumentato affatto la sicurezza.
Chiudendo i canali legali di vendita di marijuana legale e cannabis light, lo Stato ha spinto molti consumatori verso il mercato nero, dove nessuno controlla nulla.
Chi cercava un prodotto sicuro, tracciabile e con livelli di THC sotto controllo, ora lo trova solo all’estero o attraverso canali non regolamentati.
Intanto, le forze dell’ordine sono impegnate in sequestri di piccoli negozi invece di concentrarsi sui veri trafficanti di droga.
Un dispendio inutile di risorse pubbliche che non porta alcun beneficio reale.
L’articolo 18 del Decreto Sicurezza è, a tutti gli effetti, un fallimento annunciato.
Non ha portato più ordine, non ha reso il Paese più sicuro e non ha aiutato nessuno.
Ha solo penalizzato chi lavorava nel rispetto delle regole e del buon senso.
Il settore della canapa meriterebbe regole chiare e moderne, non divieti ideologici.
La cannabis light, la marijuana legale e i prodotti CBD non sono un problema: sono un’opportunità economica, agricola e sociale.
Invece di reprimerli, lo Stato dovrebbe regolamentarli seriamente e con intelligenza.
Fino a quando questo non accadrà, l’Italia continuerà a vivere un assurdo paradosso: quello di un Paese che criminalizza la legalità e protegge, involontariamente, l’illegalità.
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